«Sono nata in Togo, oggi vivo a Firenze e sono estetista a Porta a Prato. Faccio un lavoro che ho sognato tanto e per il quale ho lottato a lungo. La mia è una storia di emigrazione, quasi una costante per gli africani, è così da sempre. Mia madre emigrò dal Benin al Togo e lì conobbe mio padre, nacque una lunga storia d’amore e con questa sette figli. Avevo 6 mesi quando la mia famiglia si trasferì in Costa d’Avorio, a Grand Bassam, una città sul mare, si stava bene là, un’atmosfera tropicale, il tempo era lieve, il mare ed i suoi echi, il suo profumo me lo porto ancora dietro insieme ai rumori dell’Africa, l’africa è come Napoli, le persone per strada si parlano, a volte gridano, mangiano con passione, ridono di gusto; ma L’Africa è anche povertà, assenza di prospettive. C’è tanta ricchezza ma gli africani di quella non vedono niente, la nostra terra è depredata di tutto e anche della speranza, la gente emigra in cerca di un futuro».
«Sono la figlia maggiore della mia famiglia, avevo il dovere di aiutare la mia famiglia, andare via è stata una scelta forzata. A 21 anni ho trovato lavoro in un ristorante italiano in Costa d’Avorio, la proprietaria si chiamava Anna; un giorno suo nipote Marco venne a trovarla e noi due ci piacemmo da subito, l’Italia è diventata fin da allora parte di me. Venni in Italia per la prima volta nel 1996, in vacanza con Marco a Milano; tutto mi sembrava grande, sterminato, caotico, era come essere dentro un vortice, sballottati a destra e sinistra. Tutto era cristallino, molto bello ma forse troppo perfetto. La vacanza si trasformò in un soggiorno, il mio visto fu rinnovato tre volte, alla scadenza finale la mia vita era a un bivio: tornare in Africa o rimanere in Italia. Io e Marco ci sposammo in Comune a Milano, avevo 23 anni, eravamo troppo giovani, non durò a lungo».
«Riuscii a rimanere in Italia dopo la fine del matrimonio e lavoravo come cameriera ai piani, barista e babysitter; erano lavori umili che mi piacevano, per vivere mi dovevo adattare, però il mio sogno rimaneva fare l’estetista, una professione che in qualche modo mi riporta al passato, mi ricollega ai mei antenati, all’Africa: mio bisnonno era il saggio del villaggio, quello a cui le persone si rivolgevano quando avevano un problema di salute: curava la gente con massaggi, impacchi, creme miracolose, cose strane per gli occidentali ma questa è la magia dell’ Africa. Cominciai a studiare per inseguire il mio sogno. Di giorno cameriera e la sera 6 ore di corso di formazione. Ma la sera era anche lotta contro i pregiudizi e gli stereotipi: mentre tornavo a casa una sera un ragazzo ha accostato l’auto e mi ha chiesto la tariffa della prestazione, ci rimasi malissimo. Da allora, dopo cena non esco mai da sola, ho paura che possa accadere di nuovo. Non voglio più inciampare nell’ignoranza delle persone, non voglio che qualcuno possa rovinare la mia vita».
«Per arrivare ad aprire questo centro estetico, mi sono dovuta scontrare con mille difficoltà e con il razzismo, tante porte chiuse in faccia, altrettante umiliazioni. Una volta una cliente mi disse: “Non sono razzista ma i massaggi preferirei farmeli fare da un’estetista bianca”. Adesso ci rido sopra, cerco di smitizzare, il razzismo c’è anche in Africa, fra etnie, lotte di classe. Fino a 35 anni mi arrabbiavo, adesso mi rassegno all’ignoranza delle persone. Ma cerco di combatterla in qualche modo, lo faccio massaggiando la pelle delle donne, il mio modo: la mia prima vera cliente fu Susanna, mi disse di non mollare, mi disse che ero brava. Da allora è stato tutto un passaparola, il centro estetico sempre pieno, recensioni a cinque stelle e clienti felici. E adesso anche le prime stagiste. E’ il miracolo della mia vita».