«Un giorno una mamma è tornata da me e mi ha detto: “Hai visto? È andato tutto bene, come dicevi tu”. Io ho alzato lo sguardo dal panino che stavo facendo e ho visto suo figlio, in piedi, in salute, sorridente. Quella madre era stata in ansia per giorni, in una spola continua con il Meyer, dove era ricoverato suo figlio. Tra lui e il resto del mondo, c’ero io a prepararle qualcosa da mangiare per sostenere le lunghe attese, e a tentare di confortarla come meglio potevo».
Nicola Spinelli ha 49 anni. A settembre dell’anno scorso, quando la seconda ondata di pandemia sembrava solo un’ipotesi distante, ha preso in gestione il chiosco sul viale Pieraccini, all’uscita del parcheggio dell’ospedale pediatrico. «A parte una piccola parentesi, ho sempre lavorato nel mondo della ristorazione, mi piace il contatto con il pubblico. Qui però, è tutta un’altra cosa. Quando lavori vicino a un ospedale, e io ne ho parecchi intorno, il tuo locale diventa un avamposto, un presidio, a volte un luogo di prima necessità, altre una via di fuga. Il Covid ha certamente cambiato le cose: meno medici e meno infermieri, più pazienti e accompagnatori. Anche al Meyer infatti le regole impongono che un solo genitore possa accompagnare il figlio all’interno, mentre l’altro nell’attesa passa di qui a concedersi un panino. Io preparo tutto con cura, uso solo prodotti freschi e stagionali e riscaldo sempre il pane. Mi sembra che offrire qualcosa di buono a chi è preoccupato o soffre sia un gesto di umanità indispensabile. E comunque è il mio modo di intendere questo lavoro».
«Talvolta, il panino non basta. A qualcuno serve una birra, per alleggerire un po’ i pensieri. Io non faccio mai domande, ma sui volti ormai ho imparato a leggere le emozioni. Qualcuno è più assiduo, e allora vuol dire che il problema è importante. Ho conosciuto una coppia di Napoli, entrambi molto giovani. Il figlio aveva avuto un aneurisma e per molti giorni ha rischiato la vita. Questi due genitori hanno attraversato l’inferno. Piano piano si sono aperti con me e mi hanno raccontato. Io ho cercato di sostenerli come meglio potevo. Quando chiudevo il chiosco, per esempio, lasciavo sempre qualcosa da mangiare e da bere in un luogo nascosto, solo per loro. Una piccola cosa, davvero, rispetto all’enormità di quel dolore. Poi è andato tutto bene, per fortuna, il ragazzo si è ripreso. Ora vengono a fare solo dei controlli, ma da me passano sempre. Questi genitori, come tanti altri che magari affrontano una malattia cronica od oncologica dei propri figli, sono i veri eroi, i veri campioni. Anche io sono padre, dunque li capisco benissimo. A fine giornata, mi rendo conto dell’energia che mi hanno lasciato addosso. Ma anche i bambini sono eccezionali. E per loro ho sempre una bella scorta di caramelle da distribuire».