Era il 2007 quando Lorenzo Fiorini, giovane imprenditore fiorentino con una vita comoda, sente che la solita vacanza ad Ibiza non gli avrebbe dato quello di cui aveva bisogno in quel particolare momento: “Non avevo idea di dove andare e cosa fare, sapevo soltanto di avere un mese a disposizione. Una conoscente mi disse che l’anno prima era stata in Burkina Faso con l’associazione Movimento Shalom, a fare volontariato in una mensa per bambini. Chiamai e da subito mi accolsero con molta disponibilità; non importava essere un medico o aver fatto studi particolari, ma avere tempo e voglia da dedicare. Col senno di poi posso affermare che davvero non serve altro per fare la differenza”. Stava per partire un gruppo per l’Uganda, e Lorenzo si unì, seguendo nient’altro che l’istinto: “Si pensa di essere pronti e utili fin da subito, ma non è così. Nella prima missione c’è tutto da imparare su un mondo che non ha niente a che vedere col nostro. Dopo tre giorni, iniziai a stare male, febbre alta e nausea. Con noi c’era un dottore locale che aveva studiato nell’Unione Sovietica, mi disse che doveva essere una semplice intossicazione alimentare. Ma continuavo a peggiorare, di notte mi misero in una macchina e viaggiammo per cinque ore per arrivare al primo semi-ambulatorio gestito da un vescovo. C’era solo un ecografo e poco altro, io ero moribondo. Mi fecero le uniche analisi che potevano fare”.
Ecco uno dei ricordi più vividi impressi nella memoria di Lorenzo: “Il dottore venne verso di me tutto sorridente e disse: è malaria! Io, giovane occidentale cresciuto a spot pubblicitari sulla malaria, risposi: e che c’è da ridere? Lui in poche parole mi spiegò per la prima volta cos’è l’Africa: guardati intorno, non c’è niente, la malaria è una delle poche malattie che sappiamo facilmente individuare e curare. Per tutto il resto non sappiamo che fare, il primo vero ospedale è ad altre cinque ore di soldi e benzina. Molti non ci arrivano. Sei stato fortunato, con queste pasticche tra pochi giorni sei di nuovo in piedi”. Aveva ragione, in tutto. Lorenzo dopo tre giorni di allucinazioni e riposo era a giocare a calcetto con i ragazzi del posto. E dopo qualche anno era in grado di aiutare come volontario, avendo imparato a riconoscere la malaria tramite la lente di un microscopio.
E mentre apprende cosa fosse la vera vita di questi popoli, instaura con il Movimento Shalom un rapporto destinato a durare nel tempo. Sono viaggi che non lasciano mai indifferenti, dice Lorenzo: “Io non ho più smesso, e negli anni ho portato con me moltissime persone da Firenze, reclutate anche a cena tra una chiacchiera e l’altra. Oggi sono volontari, donatori attivi, amici del progetto. Una cosa è mandare soldi, un’altra è stare con loro e aiutare, difficilmente ti lascia insensibile. La vicinanza che crei serve ad instaurare un rapporto con questi popoli che devono accettarti e rispettarti anche per essere aiutati. Sono persone senza niente, ma a differenza di quello che può essere percepito da qua, camminano sempre a testa alta, con grande dignità e molta voglia di sdebitarsi. C’era questa donna con quattro figli e quattro galline, che volle a tutti i costi darcene una, suo unico avere e mezzo di sostentamento”.
I progetti finiscono ma le attività rimangono, quelli che racconta sono veri esempi di sviluppo sostenibile: “Shalom non ha un taglio assistenzialista, non portiamo sacchi di riso che poi finiscono, ma facciamo in modo che venga coltivato in autonomia. In Uganda e in Burkina abbiamo lanciato questo progetto di microcredito all’imprenditoria femminile. Le donne sono statisticamente più responsabili e solidali, gli uomini di queste comunità spendono spesso tutto in alcol. Raccogliamo i soldi qua in Italia, facciamo un fondo e cerchiamo gruppi di donne. Ogni donna presenta un suo progetto: 50 euro per rifare un recinto, comprare tre galline e iniziare un allevamento. 50 euro per andare in città a comprare due sacchi di carbone, riportarli col trasporto nel paese e venderli al doppio in piccoli sacchettini. Funziona davvero, i tassi di restituzione sono altissimi, al 90-95%”.
Quello che Lorenzo ha scoperto negli ultimi quindici anni è un mondo molto lontano dal nostro, eppure così vicino, “le prime volte al mio rientro mi ritrovavo a fare calcoli in continuazione: con il pieno della macchina potrei salvare un bambino, se la vendessi ne salverei altri venti. Poi mi sono resto conto che così non vivevo. Sono due mondi diversi, ma bisogna avere consapevolezza”. Solo andando a conoscerlo davvero nel profondo si coglie il cuore della drastica distanza tra noi e loro: “L’AIDS non è così grave? Ai tempi mi pareva un’assurdità, una follia. Per noi l’AIDS è sinonimo di male assoluto. Ma sempre lo stesso dottore mi spiegò la loro prospettiva: qui si muore subito per tante cose: incidenti stradali, ferite, diarree, e via dicendo. Non ci sono né strumenti, né ambulanze, né vaccini. Un morbillo qualsiasi fa strage di bambini, 1 su 13 non arriva al quinto compleanno, e moltissime donne muoiono di parto ogni giorno. L’aspettativa di vita è bassissima. Il nostro problema principale è ancora tutto ciò che ti uccide in pochi giorni, non solo una malattia come l’AIDS, che pur uccidendo lascia anni di vita”.