La storia di Alessandra Pauncz inizia con le radici familiari, suo padre fuggito dall’Ungheria nel 1956, era un adolescente accolto a Firenze come quello che oggi definiremmo un minore non accompagnato. La madre era una turista americana. Dopo aver conseguito la laurea in filosofia, Alessandra ha intrapreso un dottorato interdisciplinare a Roma sulle Storie femminili, aprendo la strada a una prospettiva accademica che avrebbe incontrato l’azione pratica. “Gli anni ’80 e ’90 sono stati determinati dal fare delle donne, il femminismo italiano aveva questa caratterizzazione dei luoghi, della pratica del femminismo e del lavoro tra donne. La mia attenzione era focalizzata su uno spazio che rispecchiasse questi valori, non necessariamente un centro antiviolenza. La svolta decisiva avvenne durante l’inaugurazione di Artemisia nel dicembre 1994, quando cercavano volontarie. Da quel momento, si è sviluppato il mio interesse e la mia passione personale”
Il suo impegno con l’Associazione Artemisia costituisce la fase iniziale della sua carriera. La passione con cui svolge l’attività la porta a assumere il ruolo di coordinatrice, ma un momento decisivo nella sua crescita professionale è segnato dalla partecipazione a un corso di formazione negli Stati Uniti, focalizzato sul lavoro con gli autori della violenza. “Nel 1998 partii per gli States insieme a una collega di Artemisia per seguire un corso di formazione rivolto agli autori di violenza. Inizialmente, l’argomento suscitava un maggiore interesse nella mia collega, ma l’esperienza si rivelò profondamente toccante anche per me. Oltre alle lezioni, partecipammo a sessioni di gruppo con uomini autori di violenza. Ricordo la sensazione di paura, non associata al luogo o agli uomini presenti fisicamente, ma alle storie delle donne che avevo accolto negli anni, che avevano impresso in me l’immagine del maltrattante come un fantasma finora inesplorato.”
Le valutazioni scaturite da questa esperienza hanno dato vita a una serie di considerazioni fondamentali, segnando il primo passo verso una comprensione più approfondita della mascolinità. Questo processo di riflessione ha trovato espressione concreta nella Campagna del Fiocco Bianco, avviata nel 2004. In concomitanza con questa iniziativa, la nascita del figlio maschio si è rivelata una chiave di volta significativa. “Mi sono sempre sentita nata per fare la madre di una figlia femmina, come accaduto nel 2002. Allora infatti mi sentivo prontissima. Quando ho scoperto di essere incinta di un figlio maschio, invece, ho iniziato a chiedermi come avrei fatto a crescere un giovane uomo, mentre mi portavo dentro tutte le esperienze ascoltate negli anni. Così è iniziata la ricerca di alleati uomini e di un maschile positivo. Ed ecco che il primo passo fu Campagna del Fiocco Bianco, condotta quasi senza risorse, che portò il fondatore Michael Karuffman dal Canada, dando inizio a una serie di relazioni con centri che si occupano del maschile.”
La campagna ottenne un notevole successo, replicandosi negli anni, e nel contempo si sviluppavano rapporti significativi con i centri dedicati agli uomini. Questi legami si rivelarono cruciali per la concezione del progetto CAM – Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti, presentato nel 2008, non solo a livello nazionale ma anche europeo, in un periodo in cui esisteva ancora una rete informale. Insieme, costruirono un modello di interventi adattato al contesto italiano, anticipando di molti anni l’implementazione della legge sul codice rosso, che ha introdotto l’obbligatorietà dei percorsi. Fino a quel momento, i percorsi erano basati esclusivamente sulla volontarietà. “Noi abbiamo iniziato nel 2009 e da quell’anno fino al 2020 abbiamo avuto prevalentemente accessi volontari, per un numero di circa 50 uomini all’anno. Questo accadeva fino al 2020. Poi è entrato in vigore il Codice Rosso ed è cambiata la normativa: ciò ha comportato il fatto che nel momento in cui c’è una condanna o una sentenza di patteggiamento che viene concordata con una pena inferiore ai 3 anni, l’autore di violenza è obbligato a frequentare il percorso al Centro.”
Il percorso proposto dal CAM si colloca tra i servizi di contrasto alla violenza, nel settore della prevenzione, dove prevenzione ha un’accezione molto ampia, che inizia con gli interventi nelle scuole, la sensibilizzazione agli operatori e le iniziative di percorsi alla nascita. Alessandra sottolinea: “Sappiamo che la violenza comincia e aumenta con la nascita del primo figlio. L’età media dei nostri utenti è proprio 45 anni. Diventare padre per un uomo non viene spesso preso in considerazione pur essendo un momento delicato e poco esplorato. Nei corsi di preparazione alla nascita, in genere, non si parla della responsabilità, delle paure, dei significati”.
Le altre attività vengono svolte in carcere o sono rivolte a chi si presenta al centro in modo volontario. Il rischio che la violenza possa ripetersi se non si fa alcun tipo di lavoro dopo la condanna è molto alto: “Il cambiamento è un processo che dura tutta una vita. Per noi è difficile perché ci sono molte aspettative dopo un anno di lavoro. Non ci si rende conto che innestare un processo di riflessione e offrire un’opportunità a chi non ha mai riflettuto su queste cose è solo un primo passo”, avverte la dottoressa Pauncz, che oggi è presidente e tra le socie fondatrice della Rete Nazionale dei Centri per autori di violenza (Relive – Relazioni libere dalle violenze) e direttrice esecutiva della Rete Europea (WWP EN).
L’iter per gli uomini prevede prima dei colloqui individuali condotti da un operatore uomo, durante i quali si cerca di stabilire la volontà di intraprendere un percorso di cambiamento. Se la valutazione è positiva, vengono inseriti in gruppi psicoeducativi, che sono condotti da un uomo e una donna. L’obiettivo di questi gruppi è fornire strumenti pratici, come indicazioni comportamentali, per sviluppare una maggiore capacità di riconoscere le emozioni e gestire le situazioni a livello cognitivo, emotivo e comportamentale. Durante il percorso, si riflette anche sugli stereotipi di genere.
Dopo anni di incrollabile impegno nel contrasto alla violenza di genere, svolto con tenacia, passione e con la fiducia nella costruzione di un futuro diverso e possibile, il messaggio fondamentale è chiaro: cambiare gli uomini è essenziale per affrontare la violenza maschile contro le donne. “La violenza maschile contro le donne è un problema maschile e non dobbiamo permettere che la responsabilità venga di nuovo scaricata sulle vittime. È vero, bisogna salvare le vittime dall’incendio, ma poi il fuoco va spento. Lavorare con gli uomini significa spegnere quell’incendio,” conclude.
La storia di Alessandra è realizzata grazie al contributo di Cesvot