«Se ripenso alla mia infanzia, mi rivedo a Quercianella, in riva al mare al tramonto, nella gioia di una pesca andata bene con il mio babbo. Ricordo anche la bellezza di quando mi sono innamorato per la prima volta, da adolescente. E, un po’ più grande, quando ho sentito di continuare ad amare anche chi non mi amava più. Credo che questi tre episodi abbiano contribuito a farmi capire come la ragione della vita sia l’amore, una lezione imparata da Petrarca e da Coluccio Salutati, che hanno fatto di questa città il luogo dell’Umanesimo».
Padre Bernardo, al secolo Francesco Maria Gianni, abate della comunità monastica di San Miniato al Monte dal maggio 2009, socchiude gli occhi mentre richiama alla memoria frammenti del passato. Proprio lui che ha voluto coniare l’espressione “il futuro del futuro” per reagire a questo momento di particolare afflizione e sgomento in cui parlare di futuro appare insufficiente. E allora, occorre andare oltre.
Nato a Prato nel 1968, studente al Liceo classico Cicognini, laureato in Lettere all’Università di Firenze, Francesco cresce lontano dalla fede. «Ci sono stati anni in cui non riuscivo a immaginare un Dio» racconta. «Forse alcuni eventi mi avevano condotto in questa direzione. Alcune brutte esperienze a scuola, fatti che oggi chiameremmo di bullismo. Ero alle medie quando alcuni ragazzi più grandi mi fecero cadere su dell’urina. Quel giorno scoprii con stupore la violenza senza un perché, la gratuità del male, una risorsa che ti procuri a costo zero per alleviare un disagio. E questo per me fu sconvolgente perché mi lasciò addosso la sensazione di poter fare la stessa cosa. Anche i primi incontri con la morte generarono in me paura. Ricordo un compagno di classe di mia sorella, amico di quei ragazzi che mi avevano maltrattato, morto improvvisamente a 14 anni per un’appendicite mal curata. Ricordo le urla della madre al funerale che mi lacerarono il cuore e lo predisposero ad allontanarsi da Dio».
Avrebbe voluto fare l’archeologo, Francesco. «Mi piaceva l’idea di razzolare nel passato alla ricerca di tracce di vita e bellezza sepolte dall’oblio, un viaggio nella memoria e nella storia che mi ha sempre affascinato. Anche nella vita monastica sono entrato con un cuore di archeologo, attento alle sedimentazioni del passato. Ma fare il monaco ha il vantaggio di potersi proiettare in avanti. E così mi sono scoperto sovversivo. Non mi accontento, non mi rassegno, ho l’immaginazione e il desiderio di cambiare. E questo accade proprio perché il monastero, che Roland Barthes definiva uno spazio di monotonia senza avvenimenti, desta nel mio cuore una sovrasensibilità alla novità, generando la passione per il futuro. San Miniato al Monte, con la sua bellezza, altro non è che la profezia visiva della città futura, della Gerusalemme celeste».
C’è una data che rappresenta il punto di svolta nella vita di Francesco: 24 dicembre 1992. «La notte di Natale, un amico non credente mi invitò ad assistere alla celebrazione della Messa nell’antica chiesa di Rosano, dalle monache benedettine. Quella fu la meravigliosa trappola nella quale Dio mi fece cadere per farsi scoprire come vero soggetto della mia vita. Sono diventato Bernardo quando, l’11 luglio 1997, l’abate Agostino cambiò il mio nome. Sono diventato Padre Bernardo quando, nel 2009, sono stato scelto come padre di questa comunità monastica. Non è avvenuto a caso, ma tutto è accaduto grazie a una serie di passaggi che hanno suggellato la trasformazione del mio cuore, che si è fatto da diffidente, incredulo e refrattario all’invisibile, a rapito da tutto quello che supera ed eccede le nostre conoscenze. Anche l’amore. Diventando monaco non ho spento il mio cuore, non lo ho anestetizzato. Non ho rinunciato ad amare le creature, ma mi sento chiamato ad amarle come riflessi della sorgente stessa dell’amore, che è Dio. Questa consapevolezza disinnesca il problema della rinuncia. Se non fosse così tutto sarebbe una prova di forza, una deformazione del tuo cuore, ma Gesù ci vuole liberi, felici e non frustrati».
«Non ero in chiesa la volta in cui sentii chiaramente che la mia vita doveva essere quella di un monaco: ero al Museo Pecci di Prato che ospitava una mostra sugli ultimi lavori di Mirò. Scoprii che, nella fase estrema della sua vita, l’artista aveva capito che tutto diventava arte ed espressione. Aveva dichiarato che le opere che riteneva più belle erano quelle che realizzava la mattina quando portava il cane in spiaggia: erano i disegni fatti con la propria urina sulla sabbia. E il fatto che le onde arrivassero a cancellarle subito non toglieva valore a quei disegni. In quel momento capii che la vita monastica esprime il senso delle cose, la loro misteriosa pregnanza per il semplice fatto che accadono, anche se nessuno le vede. Questa consapevolezza, alla quale torno spesso, vaccina il mio desiderio di comunicare dal grande rischio del protagonismo. Spesso mi trovo sul crinale: vorrei anche io fare arabeschi d’urina più che libri a profusione. So di avere un ruolo in questa città, ma io voglio rimanere una sentinella, che vigila e veglia, custodisce e presidia. San Miniato non a caso è costruita a Oriente, da qui si attende ritorno del Messia secondo la tradizione, è la porta che conserva la possibilità di un ritorno e di un adempimento. Il mio compito è tenere aperta questa porta, nel cuore delle persone che salgono qui, alle quali offro accoglienza e attenzione. Ascolto le loro piccole e grandi problematiche, che oggi sono soprattutto sventure economiche. Senza la pretesa di essere utile, ma sperando di trovare un valore nell’inutilità».
E di sicuro questo valore lo ha compreso il grande scrittore toscano Tiziano Terzani quando all’indomani dell’attentato alle Twin Towers di New York del 2001, salì a San Miniato. Bernardo lo accompagnò sul campanile. «Stava elaborando una sua parola di pace che disarmasse la tentazione di rispondere all’odio con l’odio. Percepiva in questo luogo uno spazio in cui c’era la cultura dell’incontro, un luogo in cui l’ignoto e lo sconosciuto gradualmente diventavano sempre meno ostili e minacciosi».
Accompagnare la trasformazione, ecco il ruolo che Padre Bernardo vuole avere, sfuggendo alle definizioni, spegnendo i riflettori che lo inquadrano con il “monaco social”, procedendo con «tensione operosa verso il futuro, nella speranza che sia migliore del presente che viviamo», senza mai perdere l’autoironia e il sorriso. Lo stesso che sfodera dicendo: «Ho lanciato un nuovo hashtag: #debernardizziamo Firenze».