Ogni fiorentino nato prima del 1960 ha un suo ricordo dell’alluvione. Piccoli tasselli che uniti tutti insieme fanno la storia di Firenze, presa da tanti punti di vista. “Ma la mia storia del 4 novembre non sto a raccontargliela, c’è dappertutto – giornali, televisioni…”. E allora…? “Nessuno parla di cosa successe dopo”.
Sono passati 54 anni. Antonina, il 4 novembre 1966 abitava in zona Santa Croce: quella orrenda massa di acqua mista a fango, nafta e chissà cos’altro arrivò oltre i 5 metri nella sua zona tanto che “dal terrazzino al primo piano si poteva quasi toccare” e dalla terrazza in cima al palazzo nelle prime ore del disastro riusciva a sentire la gente del quartiere (e allora qualcosa da raccontare c’è…) che rifugiatasi il più in alto possibile quasi istintivamente “diceva di rivolgersi a Palazzo Vecchio, al Comune, per avere un aiuto. Quello diede fiducia a mio padre”.
Antonina il 4 novembre 1966 faceva di cognome, come tuttora del resto, Bargellini. Il padre Piero quel giorno era il sindaco di Firenze, ribattezzato nell’occasione “primo alluvionato” invece di “primo cittadino” – in fondo a ragione dato che il quartiere di Santa Croce fu il più colpito dalla piena dell’Arno. Il ricordo principale è “che il babbo non lo vedemmo proprio. Uscì e non si rivide.” Il primo allarme fu proprio il suo: “Fiorentini! Invito tutti alla calma e a ridurre al minimo la circolazione, mentre prego i possessori di battelli di gomma e di mezzi anfibi, anche in plastica, di farli affluire in Palazzo Vecchio, per gli immediati soccorsi sanitari, alimentari e di salvataggio”.
Il sindaco Bargellini, la cui giunta era peraltro dimissionaria all’epoca, si prese cura di Firenze, dei suoi cittadini, dei suoi monumenti in quelle ore drammatiche. Poi, quando solo l’impegno, il sudore e la buona volontà non bastavano più, si mosse il mondo.
“Questo è quello che andrebbe raccontato, delle quasi cento nazioni che hanno inviato aiuti, in tutti i modi possibili” dice Antonina guidandoci nella sua abitazione in Santa Croce, la stessa del 4 novembre 1966. Casa Bargellini potrebbe ricordare un archivio per la mole di libri, lettere, documenti che emergono: Antonina li estrae come minerali preziosi dalla roccia di una miniera. “Alcuni sono inediti” ci spiega, aggiungendo anche che il lavoro monstre di archiviazione e riordino del materiale sarebbe da fare negli archivi comunali “dove è conservato tutto ciò che passava dalla segreteria del sindaco e che non è mai stato reso pubblico”.
Il suo scopo sarebbe proprio questo: trasmettere il messaggio che il post alluvione ha lasciato e che si è perso nel tempo tra trafiletti di giornale e testimonianze che quasi nessuno ricorda. “La mia idea è quella di realizzare un museo virtuale e interattivo a Firenze, non tanto sui giorni dell’alluvione, ma su cosa accadde dopo. La mobilitazione da ogni parte del mondo per dare un sostegno alla città. C’è un bellissimo messaggio di Léopold Sédar Senghor, a quell’epoca presidente del Senegal, in cui sottolinea come il suo paese pur fiaccato da una carestia ha inviato un contributo economico per Firenze: c’è una grande vicinanza che spinge Senghor a fare questo gesto. E come il Senegal tanti altri popoli, di cui oggi qualcuno ha una considerazione negativa, fecero lo stesso”.
Antonina trova anche il motivo di un legame così forte che ha catalizzato una mobilitazione internazionale forse incredibile per i tempi: “Furono i Colloqui mediterranei organizzati da Giorgio La Pira a Firenze, le grandi riunioni di sindaci provenienti da tutto il mondo alla cui organizzazione lavorò mio padre a fianco di La Pira. Quegli incontri lasciarono un segno forte di Firenze nei rappresentanti delle nazioni, ed è questo uno degli intenti dello spazio espositivo che ho in mente: far comprendere ai tanti stranieri che arrivano a Firenze cosa hanno fatto i loro paesi nel maggior momento di difficoltà della nostra città”.
Come dire che le storie di Firenze sono in fin dei conti tante storie di tutto il mondo.
Alla fine del nostro pomeriggio di racconti, usciamo insieme da Palazzo Bargellini. Arriviamo a una delle ultime rampe di scale: “Le faccio vedere dove arrivò l’acqua” e indica il quarto gradino scendendo dalla penultima rampa prima del piano terreno. Ci si ferma sopra, io con lei. Come se per due secondi salissimo su una macchina del tempo. “Arrivò qui”. Siamo poco sopra il livello del soffitto del piano terra, ben oltre i 5 metri. In quei due secondi io posso solo immaginare, lei sospirando rivede tutto.